martedì 12 luglio 2011

CORPO CELESTE – un'opinione fuori dal coro

Questo film mi divide a metà.
Da un lato, ho apprezzato moltissimo la storia narrata, dall'altro, mi hanno lasciata interdetta e insoddisfatta le scelte operate dalla giovane regista e sceneggiatrice nel narrarla.

Andiamo con ordine.

La timida ed irrequieta tredicenne Marta è costretta, con sua madre e sua sorella maggiore, a ritornare a Reggio Calabria dopo essere vissuta nell'idilliaca Svizzera, e ad affrontare, contemporaneamente, i traumi dello sradicamento, della crescita e della ricerca di valori spirituali.

Marta cerca delle risposte fuori e dentro di sé, nel suo corpo che sta cambiando e nella sua anima, alle soglie sia di una confermazione come donna (in procinto del primo ciclo) che di una confermazione nella fede (sta per ricevere il sacramento della Cresima).

L'universo che la circonda è ostile e insoddisfacente, non la comprende ed è incomprensibile ai suoi occhi.

L'assenza di un padre terreno si avverte fortissima e la ricerca di Quello che è nei Cieli è ardua, perché la comunità parrocchiale qui descritta viene gestita in modo gretto, limitato, tutta apparenza e nulla sostanza e non si cura di riavvicinare le pecorelle smarrite (o semplicemente dubbiose e curiose) al Buon Pastore.

Il peggio del peggio della vita provinciale e del cattivo gusto televisivo la fanno da padroni e la domanda “chiave” che Marta pone per buona parte del film (“Che significa: '
Eloì, Eloì, lemà sabactàni?'”, cioè l'urlo di Gesù crocifisso “Padre mio, Padre mio, perché mi hai abbandonato?”) è destinata a trovare soddisfazione solo molto lontano dal mondo dove la ragazzina è obbligata a vivere.
Un mondo che l'esordiente regista Alice Rohrwacher ritrae in tutto il suo squallore, per quel poco che ci lascia intravedere.

La critica ufficiale osanna già in tutti i modi questa ventottenne, sorella della più famosa attrice Alba, e Corpo Celeste ha già fatto il pieno di premi e riconoscimenti.

Vista la tendenza culturale, per piacere all'intellighentia basta che l'esordiente di turno scosti un po' il velo di santa madre Chiesa ed eviti di filmare paesaggi da cartolina della bella Italia e già si grida al capolavoro.

Fatto sta che, a detta dei critici di professione, la Rohrwacher lo fa senza giudicare o denunciare e in questo aspetto documentaristico molti vedono il punto di forza del film.

Al contrario, per me ne costituisce il punto debole, specialmente nella sceneggiatura che di Marta non ci racconta altro che la sua vita tutta “casa e chiesa”, letteralmente.

Non sappiamo null'altro di lei come se nient'altro esistesse, come se non vi fossero altre sfumature. Minimalismo elevato all'ennesima potenza, fino all'inconsistenza.

Cosicché, passato lo sdegno per come viene svolto il catechismo nelle città del sud (e qui molti saranno indotti a pensare che sia così in tutta la nazione) e per quanto è degradata Reggio Calabria, di tutta la sostanza di Marta ci resta poco in mano.

Tolto il tema coraggioso (il desiderio di una spiritualità più profonda), ricorderemo solo la splendida direzione degli attori (tutti bravissimi, dai pochi volti noti fino alle comparse, passando dalle due rivelazioni Yle Vianello/Marta e Pasqualina Scuncia/Santa, la catechista), la fotografia buia e sgranata e il campo visivo stretto, appiccicato al collo dei protagonisti (perché si sa che pellicola sgranata/presa diretta/inquadratura stretta fanno tanto degrado/neo-neo realismo/tormento interiore).

E un'unica, evidente certezza: che Alba Rohrwacher non lavora per la pro-loco di Reggio Calabria.
Pubblicato anche su MyMovies.it

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