domenica 24 luglio 2011

IL RAGAZZO CON LA BICICLETTA – Sopravvalutato?

Film senza fronzoli, senza giri di parole e senza colonna sonora, quest'ultima fatica dei fratelli Dardenne si preoccupa solo di andare dritta al bersaglio come un gancio destro ben assestato.
Siamo subito partecipi di una realtà ben dura da affrontare: un padre vedovo parcheggia un ragazzino tredicenne in un istituto di accoglienza e si fa negare al figlio che tenta ripetutamente di riavvicinarlo.
Thomas Doret presta il suo giovanissimo volto acqua e sapone all'arrabbiato Cyril nella sua caparbia ricerca dell'amore paterno laddove (e sembra impossibile) è destinato a trovare solo l'insormontabile muro del rifiuto.
Lui prova a scalarlo in tutti i modi, questo muro, a forza di pugni, morsi, corse e fughe.
Avrà come unica fortuna quella d'incontrare, in questo suo continuo moto selvaggio e inarrestabile, la bella e buona Samantha (Cécile De France, splendida come sempre) che decide di colmare il vuoto nella vita del ragazzino, prendendosi cura di lui e donandogli il suo affetto incondizionato, senza chiedere nulla in cambio.
Le forti tematiche di fondo – tra cui la naturale ricerca di figure di riferimento, la rabbia giovane, il pericolo di sbando quando si è soli e senza amore – vengono dipanate nel film senza mai cadere nel melenso o nello stucchevole.
Al contrario, i registi procedono con sobria durezza per tutta la pellicola, riuscendo a pieno nell'intento di tenere desta la nostra attenzione e spingendoci alla riflessione su temi assai delicati.
Per non rischiare spoiler, tralascio le considerazioni sul finale dal quale, però, traiamo il giusto insegnamento sul potere e l'importanza dell'amore parentale.
Elencati i punti di forza, non posso non contestare alcune scelte narrative che mi lasciano dubbiosa.
I Dardenne affondano, senza pietà e sistematicamente, tutte le figure maschili della storia, in una gara al ribasso: dal padre egoista e anaffettivo, al malvivente adescatore di giovani sbandati, al partner incomprensivo e poco innamorato.
Per contro, esaltano a dismisura l'unica protagonista femminile, una sorta di santa che indirizza il suo naturale istinto materno verso un ragazzino non solo sconosciuto, ma problematico ai massimi livelli.
La generosità della donna, per quanto meravigliosa, sfiora l'inverosimile poiché nasce dal “nulla”: un incontro rapidissimo e fugace tra lei e Cyril a cui mancano almeno tre o quattro inquadrature e tutto un pezzo di sceneggiatura per giustificare e rendere plausibile il suo interesse per il “caso umano”.
L'elezione a “donna dell'anno” è troppo smaccata nel suo accollarsi senza motivo non solo il caratteraccio del ragazzino, ma tutti i disastri che ne derivano, rinunciando persino alla sua relazione amorosa per curarsi di lui.
Mentre il cinema degli ultimi anni in generale e degli ultimi tempi in particolare scandaglia in tutte le sue sfumature la necessità di ritrovare un padre degno di questo nome (si vedano anche i recenti Corpo Celeste e The Tree of Life), questa madre che basta a se stessa ed è così super-brava, super-buona e super-bella ci sembra una soluzione sì rassicurante, ma un po' troppo semplicistica per colmare una lacuna di cui si sta avvertendo forte il dilagare.
Lo dico da appartenente al genere femminile: la teoria della super-donna proposta dai Dardenne non mi ha convinta e abbassa il tono del film.
Un vero peccato.
Pibblicata anche su MyMovies.it

THE TREE OF LIFE - Il dubbio esistenziale di Malick


Per la mia recensione di The Tree Of Life di Terrence Malick, vi rimando al sito posthuman.it, con un sincero grazie a Mario Gazzola che mi ha concesso spazio e disponibilità.

Buona lettura e buona visione!

martedì 12 luglio 2011

I guardiani del destino - passatempo di buona qualità

Il genio letterario di Philip K. Dick continua da decenni a fornire materiale per trasposizioni cinematografiche delle sue opere di fantascienza e noi, amanti del genere, non possiamo che essere grati agli sceneggiatori americani che ne prendono spunto per regalarci un po' di sano divertimento.
I puristi del libro/racconto trasposto fedelmente su grande schermo forse non saranno contenti di questo adattamento di "Squadra riparazioni" (Adjustment Team), che del racconto originale prende le idee di fondo, ma molto rielabora concedendosi numerose libertà.
Quando si tratta di Dick, però, non starei tanto a criticare lo stile hollywoodiano di reinterpretare di sana pianta i soggetti del grande scrittore (molto spesso visionarie ossessioni per la realtà "altra", la cospirazione dei "piani alti" e l'ingerenza di questi ultimi nella vita dell'impotente cittadino).
Il cult movie "Blade Runner", pietra miliare nella storia del cinema di SF e del cinema in generale, non sarebbe stato il capolavoro universalmente noto che è se avesse seguito pedissequamente le pagine del romanzo originale: "Do Androids Dream of Electric Sheep?"...
Non che questo precedente basti a giustificare ogni stravolgimento (anche perché non tutti sono riusciti come nel masterpiece di Ridley Scott), ma di sicuro la dice lunga sul fatto che gli americani sanno il fatto loro quando si tratta di rendere fluido, godibile e spettacolare uno show, senza per questo rinunciare alla qualità delle idee da cui lo show prende vita.

Così avviene in questo "I guardiani del destino", consigliatissimo per passare 106 minuti di gustoso relax al fresco della sala cinematografica.
Comodamente seduti in poltrona, godiamoci le corse mozzafiato
dei protagonisti per le belle vie di Manhattan.
Da un lato, vediamo sfrecciare il bravo Matt Damon - credibile anche in versione romantica e alle prese con una questione di libero arbitrio - che tenta di scappare dal disegno divino e cerca di riacciuffare il proprio destino che sembra sfuggirgli dalle mani.
Dall'altro, schizzano gli eleganti inseguitori che lavorano alacremente per mandare a posto tutti i tasselli nel "grande mosaico del fato".
L'adrenalina fa il suo dovere alternandosi ai momenti di riflessione, sparsi in giusta dose e senza mai risultare pesanti, grazie alla sceneggiatura brillante e bene interpretata e ad una buona confezione nel complesso.
Menzione d'onore, infine, ai due plagi di altissimo livello sul fronte di effetti speciali/trovate narrative: la sofisticata riedizione della Mappa del Malandrino di "Harry Potter" che qui troviamo in versione Libro del Destino, e le Porte 'Magiche' di "Monsters & Co." ugualmente usate come scorciatoia logistico-dimensionale.
Buona visione.
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CORPO CELESTE – un'opinione fuori dal coro

Questo film mi divide a metà.
Da un lato, ho apprezzato moltissimo la storia narrata, dall'altro, mi hanno lasciata interdetta e insoddisfatta le scelte operate dalla giovane regista e sceneggiatrice nel narrarla.

Andiamo con ordine.

La timida ed irrequieta tredicenne Marta è costretta, con sua madre e sua sorella maggiore, a ritornare a Reggio Calabria dopo essere vissuta nell'idilliaca Svizzera, e ad affrontare, contemporaneamente, i traumi dello sradicamento, della crescita e della ricerca di valori spirituali.

Marta cerca delle risposte fuori e dentro di sé, nel suo corpo che sta cambiando e nella sua anima, alle soglie sia di una confermazione come donna (in procinto del primo ciclo) che di una confermazione nella fede (sta per ricevere il sacramento della Cresima).

L'universo che la circonda è ostile e insoddisfacente, non la comprende ed è incomprensibile ai suoi occhi.

L'assenza di un padre terreno si avverte fortissima e la ricerca di Quello che è nei Cieli è ardua, perché la comunità parrocchiale qui descritta viene gestita in modo gretto, limitato, tutta apparenza e nulla sostanza e non si cura di riavvicinare le pecorelle smarrite (o semplicemente dubbiose e curiose) al Buon Pastore.

Il peggio del peggio della vita provinciale e del cattivo gusto televisivo la fanno da padroni e la domanda “chiave” che Marta pone per buona parte del film (“Che significa: '
Eloì, Eloì, lemà sabactàni?'”, cioè l'urlo di Gesù crocifisso “Padre mio, Padre mio, perché mi hai abbandonato?”) è destinata a trovare soddisfazione solo molto lontano dal mondo dove la ragazzina è obbligata a vivere.
Un mondo che l'esordiente regista Alice Rohrwacher ritrae in tutto il suo squallore, per quel poco che ci lascia intravedere.

La critica ufficiale osanna già in tutti i modi questa ventottenne, sorella della più famosa attrice Alba, e Corpo Celeste ha già fatto il pieno di premi e riconoscimenti.

Vista la tendenza culturale, per piacere all'intellighentia basta che l'esordiente di turno scosti un po' il velo di santa madre Chiesa ed eviti di filmare paesaggi da cartolina della bella Italia e già si grida al capolavoro.

Fatto sta che, a detta dei critici di professione, la Rohrwacher lo fa senza giudicare o denunciare e in questo aspetto documentaristico molti vedono il punto di forza del film.

Al contrario, per me ne costituisce il punto debole, specialmente nella sceneggiatura che di Marta non ci racconta altro che la sua vita tutta “casa e chiesa”, letteralmente.

Non sappiamo null'altro di lei come se nient'altro esistesse, come se non vi fossero altre sfumature. Minimalismo elevato all'ennesima potenza, fino all'inconsistenza.

Cosicché, passato lo sdegno per come viene svolto il catechismo nelle città del sud (e qui molti saranno indotti a pensare che sia così in tutta la nazione) e per quanto è degradata Reggio Calabria, di tutta la sostanza di Marta ci resta poco in mano.

Tolto il tema coraggioso (il desiderio di una spiritualità più profonda), ricorderemo solo la splendida direzione degli attori (tutti bravissimi, dai pochi volti noti fino alle comparse, passando dalle due rivelazioni Yle Vianello/Marta e Pasqualina Scuncia/Santa, la catechista), la fotografia buia e sgranata e il campo visivo stretto, appiccicato al collo dei protagonisti (perché si sa che pellicola sgranata/presa diretta/inquadratura stretta fanno tanto degrado/neo-neo realismo/tormento interiore).

E un'unica, evidente certezza: che Alba Rohrwacher non lavora per la pro-loco di Reggio Calabria.
Pubblicato anche su MyMovies.it