sabato 15 ottobre 2016

MINE – Mix esplosivo tra Hollywood e Made in Italy


Dopo aver fallito una missione come cecchino, un marine americano si perde nel deserto afghano, dove finisce col calpestare una mina. In attesa dei soccorsi, dovrà resistere cinquantadue ore senza sollevare il piede sinistro dall’ordigno, sopravvivendo alla fatica, ai pericoli del deserto e ai fantasmi del suo passato.

Quando ho visto il trailer di Mine, e ammetto di averlo puntato solo perché il protagonista è Armie Hammer (figo, bello e bravo), ho pensato: Ma guarda, hanno fatto Gravity nel deserto.

Ve lo ricordate Gravity? Dopo che lo shuttle che stava riparando al suo esterno viene colpito da uno sciame di detriti, una astronauta si perde nello spazio. Dovrà raggiungere una stazione spaziale prima di esaurire la sua scorta di ossigeno, sopravvivendo al terrore, ai pericoli dello spazio e ai fantasmi del suo passato.

Ok, raccontati per logline i film sembrano davvero tutti uguali, ma, per la fortuna di noi spettatori, il deserto non è come lo spazio e Mine non è come Gravity.

E’ meglio.


Mine: le sorprese che convincono

Questo film è sorprendente sotto più punti di vista.

Per cominciare, non può certo essere classificato come la solita mega produzione hollywoodiana, dove il protagonista incappa, con un crescendo adrenalinico da cardiopalma, in una sequela di sfighe senza soluzione di continuità e tutte confezionate con milioni di dollari di effetti speciali.

Ora, qui il protagonista è un marine – figura sicuramente cara a Hollywood, il cast conta una star e attori di calibro internazionale, diversi ottimi effetti speciali ci sono e, di sicuro, non mancano tensione e impennate di adrenalina. Ma, sotto tutto questo, pulsa un cuore totalmente italiano.

La prima sorpresa che sta convincendo i connazionali ad andare in sala (Mine si è piazzato 5° al Box Office nel primo weekend di uscita, ndr), nonché a condividere post entusiastici sui social, potrebbe essere proprio questa: i registi del film Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, in arte Fabio & Fabio.


I due amici, italianissimi, reduci dall’esperienza nei corti e da una precedente pellicola, anche questa rivolta ad un pubblico fuori dai confini dello stivale, hanno capito che in Italia non c’è trippa per gatti (ma, magari dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Veloce come il vento, le cose stanno cambiando, chissà) e hanno puntato in alto con qualcosa di più ampio respiro.

E questa è la seconda sorpresa di Mine, il potere della sua storia.

Il deserto come luogo dell’anima

In questo film, dopo un inizio molto ‘american style’, l’uomo, con i suoi demoni e le sue emozioni, con le sue relazioni con gli altri e con l’ambiente che lo circonda, è al centro di tutto.

Questa scelta di scavare nell’animo umano insieme al protagonista Mike, costretto dagli eventi a guardare in profondità dentro se stesso, tocca i nervi scoperti dello spettatore, lo rende partecipe, lo conquista. 

E non poteva esserci luogo migliore del deserto per superare i confini di certo cinema, sempre uguale. Un luogo dove l’orizzonte si sposta come le dune col vento, spingendo oltre il limite il nostro punto di vista.
Il suo colore accecante, la sua arsura, i suoi miraggi ci aiutano ad immedesimarci con le pene dell’inferno che Mike/Armie Hammer sta passando, anche se non siamo marine addestrati come lui.

Il deserto, poi, ce lo possiamo portare dentro in ogni momento o lo possiamo creare intorno a noi: non è solo un luogo fisico, è un luogo dell’anima.
E’ in qualche modo parte di ognuno. Nel deserto possiamo perderci, ma anche ritrovarci.

Il Mady in Italy e la star di Hollywood
 
La sceneggiatura, pure questa di Fabio & Fabio, mischia dunque momenti di azione, tensione, suspense, a molti momenti di forte introspezione. Questo mix, per certi standard a cui siamo abituati, è un azzardo.

Si scommette sul fatto che lo spettatore sia disposto a lasciarsi tanto travolgere dagli eventi quanto a sprofondare negli incubi di Mike, il tutto senza perdere interesse o partecipazione emotiva in questa altalena, restando inchiodato alla poltrona come il protagonista è inchiodato sulla dannata mina.

Senza tagliare di una virgola la loro sceneggiatura, curando da soli il montaggio per non rinunciare a una sola scena, Guaglione e Resinaro vincono la scommessa.

Qualche minuto in meno nella sua durata non avrebbe guastato la pregiata fattura del film (è innegabile che sceneggiatura, regia e montaggio siano di primo livello). Ad ogni modo, anche l’indugiare su alcuni momenti della storia che amplificano la morale di Mine, e ci conducono con palpitante attesa verso il suo finale, nulla toglie alla sensazione di trovarsi di fronte a una pellicola diversa dai soliti prodotti.

Questa unicità sarà in parte dovuta proprio al cuore Made in Italy, che sa rielaborare gli elementi del cinema d’oltreoceano per farlo proprio senza sminuirne il fascino.
 

L’altra parte del merito potremmo anche attribuirla al protagonista, Armie Hmmer, capace fuor di ogni dubbio di reggere la quasi costante presenza in scena dalla prima all’ultima inquadratura.
Questo ragazzotto californiano ha, tra le altre doti, la totale padronanza del suo sguardo che sa rendere impassibile o angosciato, spietato o disperato, dolce o rassegnato in totale armonia col copione e con il personaggio, proprio come ogni bravo attore dovrebbe saper fare.

Sicuramente la fiducia che questa star di Hollywood ha accordato alla storia e alla direzione dei nostri due registi è stata ampiamente ripagata da un ruolo che, così intensamente interpretato, potrà soltanto aumentare il lustro della sua carriera.

In conclusione

Si può leggere già molto in giro e trovare già troppo svelato dei segreti della trama, quindi a me resta ancora poco da dire.
Cosa state aspettando?
Correte al cinema e lasciatevi travolgere da Mine!

Buona visione!






 

lunedì 10 ottobre 2016

giovedì 15 maggio 2014

Locke, Il Centenario e Grand Budapest Hotel: il mio week end in sala

Passata la delusione per SnowPiercer,
nel mese scorso ho visto quattro pellicole senza scriverne nulla:
- lo splendido HER (piaciuto moltissimo, ma ne hanno già parlato in troppi),
- il dignitoso NOI 4 (gradevole prodotto italiano, attori in parte, ben scritto e diretto),
- CAPTAIN AMERICA - The Winter Soldier  (solita buona confezione, ottimi effetti, non delude i patiti del genere)
- DIVERGENT (distopico che può piacere non solo ai ragazzini, specie nella prima parte ottimamente costruita).

Ma è in questo mese di maggio, con la splendida iniziativa della Festa del Cinema che ho raggiunto l'apoteosi dei miei sogni da pseudo-cinefila, godendomi la visione in sala di ben tre film in un solo week end.
Prima esperienza del genere che mi ha lasciata più che soddisfatta. 
E' stata davvero una festa, iniziata il venerdì e conclusa la domenica, merito anche della scelta delle pellicole poiché, ciascuna per i motivi più disparati, sono state più che degne di una visione in sala, persi nella magia del grande schermo.

Dato che siamo nell'ambito del "mai fatto prima" ho deciso di non scrivere le tre recensioni sotto forma dei soliti post.
Stavolta andiamo sulla grafica, anzi, sull'infografica.
Ne ho preparata una tutta per voi: spero sarete magnanimi nel giudizio, trattandosi del mio primo esperimento del genere, ma fatemi sapere se vi piace oppure no.
E, se gradite, condividetela pure... :-)
Buona Visione!




domenica 2 marzo 2014

SNOWPIERCER - il post apocalittico coreano che piace alla critica


Dopo quasi due anni di assenza, torno al mio 
vecchio blog di recensioni inaugurando questa rentrée con Snowpiercer del coreano Bong Joon-ho, il film post apocalittico tanto amato dalla critica italiana.

Ma perché?
Perché sono tornata a scrivere che non se ne sentiva la mancanza, verrebbe da dire, ma anche: perché tutti gridano al capolavoro?

Me lo sono chiesta dopo aver visto questa pellicola lo scorso 27 febbraio, all'uscita nelle nostre sale, però andiamo con ordine. 

Di fatto, le premesse sono buone, a partire dall'ambientazione che ci presenta una glaciazione planetaria causata erroneamente dall'uomo per - ironia della sorte - risolvere il problema del riscaldamento globale.
Un treno, l'Arca sferragliante, ospita circa duemila superstiti e percorre, con un moto perpetuo e inarrestabile, un binario di quasi 440.000 chilometri intorno al mondo da diciotto anni.
All'interno dei vagoni troviamo un microcosmo sociale che ben ci è noto e che ci rende partecipi, con i "soliti" privilegiati nella prima classe in testa al treno, armati e oppressori dei passeggeri-poveracci di coda, dove invece tutto è "dolore e spaveto e puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto", come canterebbe De Gregori.
Forti i contrasti visivi - uno dei veri punti di forza del film - tra le atmosfere che contraddistinguono i vari vagoni, da quelle cupe e lerce di coda a quelle talvolta surreali talvolta grottesche in prossimità della testa, dove si alternano colori e costumi a cavallo tra il vintage anni '60 e il carnevalesco eccessivo e discotecaro post 2000.

Poi abbiamo il cast stellare, dal barbuto eroe sofferente Chris-Fantastico4/Capitan America-Evans, al menomato John Hurt che in vecchiaia somiglia quasi a Gandalf, al gregario/spalla chiacchierina Jamie Bell, alla disturbante trasformista Tilda Swinton, al maturo visionario Ed Herris, tanto per citare i più noti.



Infine ecco, a imbastire il tutto, un regista coreano classe '69, qui anche co-sceneggiatore, che viene da tutti osannato per come ha gestito questa mega produzione in lingua (quasi totalmente) inglese con tanti attori di fama internazionale.

Quello che colpisce è per forza di cose il linguaggio stilistico di Bong Joon-ho, il quale non si piega ai dettami di tipo hollywoodiano e mantiene, imperturbabile, i suoi tempi tutti orientali con cali di tensione e lunghe pause filosofeggianti tra una scazzottata e l'altra.
Questo lo trovo motivo di vanto e gliene rendo merito.

Ma qui il dubbio mi sorge spontaneo: davvero basta questo per urlare al miracolo?
Basta diluire i tempi?
Basta mettere una musica tosta per i combattimenti e togliere tutti i rumori di sottofondo quando parlano i protagonisti?
Basta che una lunga scena di lotta sia tutta un lunghissimo rallenty?
Bastano i primi piani agli schizzi di sangue?
Basta che i "buoni" muoiano come mosche e i "cattivi" risorgano anche se feriti a morte?
Basta piazzare qua e là qualche personaggio davvero grottesco?
Basta raccontare una lotta di classe guidata da un eroe tormentato dai sensi di colpa?
No. Io dico che tutto questo non basta e non ci deve bastare.

Tanto bel materiale non privo di suggestioni e tanta voglia di stupirci di vagone in vagone non sono stati, a parer mio, dosati al meglio. 

Anche senza contare le svariate incongruenze che avrete il piacere di scoprire da soli, trovo davvero esagerati e fuori luogo gli accostamenti, fatti da alcuni, con veri masterpiece del genere come Blade Runner, Brazil e The Matrix.
Col primo, per quanto mi sforzi, non trovo niente in comune.
Al secondo ci possiamo a malapena avvicinare per la stravaganza di alcuni personaggi e qualche citazione scenografica e costumistica, senza mai raggiungere i vertici visionari di Terry Gilliam.
E in The Matrix (il primo della trilogia), dove pure ci sono alcuni momenti di parlato per forza esplicativi, non si raggiunge mai e poi mai la lungaggine di Snowpiercer dove gli spiegoni si fanno interminabili non solo per durata ma anche per numero - almeno cinque, di cui tre uno dietro l'altro nel finale!

In conclusione, data la grande attesa e gli "osanna" generali mi aspettavo molto di più.
Come dirlo in una sola parola?
Sopravvalutato.


domenica 10 giugno 2012

DARK SHADOWS & CILIEGINE


Soltanto Pee-wee's Big Adveture e Sweeney Todd sfuggono al mio carnet per poter affermare di aver visionato la filmografia completa di Tim Burton.
A dispetto delle due lacune posso comunque dire di aver accresciuto di pellicola in pellicola il mio amore verso il caleidoscopico regista.
Non ho però trovato soddisfacente il suo penultimo film, Alice in Wonderland (tanto ricco di sfarzo scenografico quanto povero di guizzi davvero sorprendenti), e ugualmente scorgo qualche mancanza nell'ultimo DARK SHADOWS.
Per la sua 15a pellicola, il regista di Edward Mani di Forbice, Mars Attacks, Big Fish, sceglie la “celebrazione” e lo fa alla sua maniera.
Celebra innanzitutto la soap opera dall'omonimo titolo “Dark Shadows”, cult in America alla fine degli anni '60, rinverdendone i fasti su grande schermo.
Al contempo, celebra i protagonisti must del genere horror e delle fiabe – streghe, fantasmi, vampiri, sortilegi...
Poi celebra la famiglia – vagamente tendente alla famiglia Addams, ma altrimenti che Burton sarebbe?
Infine celebra gli anni '70 – in particolare con una colonna sonora da urlo (compreso un cameo tutto da scoprire) e un piglio modaiolo anzi che no.
In tutto questo celebrare, che di sicuro coinvolge, affascina, strega (per rifarci alla trama), dimentica i toni del dark più puro e originale sfoggiati ne Il mistero di Sleepy Hollow.
Così, laddove molti vedono in questo film un Tim Burton più maturo e consapevole, io lo trovo solo un po' più affannato a rifarsi il verso.
Se in alcuni tratti viene da dire “Eccolo, il solito vecchio Burton” sorridendo compiaciuti, in altri ci viene da dire “Eccolo, il solito vecchio Burton” ossia, ok, è sempre lui, mai in questo film cosa c'è di nuovo?
Niente, con mio rammarico.
Guardo sempre tanto volentieri le favole dark trasposte su grande schermo con maestria e godo della bravura degli interpreti come la Pfeiffer o il mio adorato Johnny Deep che si esibiscono impeccabili al loro solito, però qui si manca di freschezza e il rischio è di scadere nel manierismo (a dispetto dell'acrobatica scena di sesso sulle note di Barry White).
In una frase: godibile senza sorprese.
Peccato.
 
 
A sorpresa godibile è invece CILIEGINE, prima fatica da regista della nostra Laura Morante.
Lì dove Burton ha scelto la via rassicurante di non regalare niente di nuovo allo stile suo marchio di fabbrica, la Morante sceglie di cimentarsi con la difficile arte della commedia e la novità sta nello scoprirla sceneggiatrice e regista oltre che attrice, capace di calibrare i toni su tre diversi fronti contemporaneamente, mantenendosi in equilibrio e senza scivoloni.
Regge il ritmo la sceneggiatura, divertente nei punti giusti che regala una buona dose di sorrisi a una commedia degli equivoci classica senza essere del tutto scontata.
Regge il ritmo registico, con l'evidente capacità della Morante di dirigere bene i suoi colleghi francesi, tutti decisamente in parte e a loro agio.
Regge la Morante protagonista, credibile nel personaggio che si è ricavata di donna continuamente insoddisfatta delle sue relazioni poiché alla ricerca dell'uomo perfetto e incapace di tollerare la minima imperfezione nei suoi partner.
Promossa dunque e con buona media la regista di casa nostra alla sua prima prova dietro la macchina da presa.

E Burton è bocciato? Ma no, lo rimandiamo solo a settembre. In DVD.

lunedì 28 maggio 2012

Questo mese in DVD: Sherlock Holmes – Gioco di ombre


Uscito a maggio in DVD e reperibile anche in edicola allegato ad una famosa testata, recuperiamo SHERLOCK HOLMES – GIOCO DI OMBRE.
I più hanno osannato l'ottima qualità del sequel, ritenendolo all'altezza del primo film girato da Guy Ritche e istrionicamente interpretato da Robert Downey Jr. e Jude Law (leggi anche la mia precedente recensione qui).
Di fatto, gli ingredienti per fare un buon sequel c'erano tutti: nuovo e più complesso mistero da risolvere, nuove ambientazioni, nuovi personaggi di contorno, “nuovo” cattivo - o meglio, svelarsi del cattivo/cattivissimo con tanto di scontro diretto con l'eroe.
Per molti è risultato soddisfacente il mix tra la vecchia squadra vincente e i nuovi elementi, con tanto di copiosa farcitura di effetti speciali.
Io sono uscita dal cinema meno entusiasta di quanto pregustassi.
Sia chiaro. Il film mi ha divertita e non mi sento di sconsigliarlo in toto, ma davvero attendevo il regista sul banco di prova e non posso essere soddisfatta del suo strafare.
Se nel primo Sherlock c'era un buon equilibrio tra il mettere in risalto protagonista e comprimari senza trascurare il fascino della trama e dell'ambientazione, qui la complessità della storia (con tanto di intrigo internazionale), il numero elevato di diverse ambientazioni, l'eccessivo uso di action ed esplosivi prendono il sopravvento su tutto il resto, a discapito dei personaggi.
Seppure Sherlock/Downey Jr. ha sempre il suo fascino da mattatore e Watson/Law resta un'ottima spalla, sembra che il “gioco di ombre” sia quello del regista che, lasciandosi prendere la mano dalla molta carne al fuoco, offusca i suoi protagonisti.
Mi resta l'idea di un film ruffiano, dove si è ripresentato (in modo rassicurante) quanto di riuscito c'era nel primo episodio (compresi sceneggiatura, colonna sonora, montaggio) dilatandolo a dismisura e strizzando l'occhio al pubblico pagante di ogni ordine e grado.
Tutto buono, per carità, ma tutto senz'anima, senza il vero gusto per la novità che era caratteristica peculiare del primo Sherlock Holmes. Cosicché, alla fine, quantità batte qualità.
Restano comunque 129' di gustoso divertimento - tra raffinata parlantina, rutilanti inseguimenti, esplosioni mozzafiato e persino ammiccamenti omosex (perché non ci siamo fatti mancare proprio nulla in questa traboccante sceneggiatura) - perciò adatto a una serata sul divano.
Basta che non vi aspettate il sequel capolavoro.

sabato 26 maggio 2012

QUASI AMICI = quasi capolavoro


E' curioso come la combinazione di parole chiave adatta a descrivere questo film potrebbe essere “perfetto equilibrio” quando tutto ruota intorno all'imperfezione e al disequilibrio, alla rottura degli schemi e all'asimmetria.
La storia di Philippe, vedovo cinquantenne, colto, ricchissimo, tetraplegico a causa di un incidente, che sceglie come aiutante personale Driss, ragazzo senegalese della periferia di Parigi, squattrinato, disoccupato e appena uscito di galera, presentava ad ogni passo l'insidia di stucchevoli scivolate nel lacrimevole, nel melenso e nel ridicolo.
Ma la misura sublime trovata nel combinare trama (basata su una storia vera), regia, sceneggiatura e interpretazione ci regalano alla fine un cocktail irresistibile, una commedia brillante senza pecche, squisita in tutte le sue parti.
Dal perfetto equilibrio, appunto.
Non una parola, una scena, una battuta di troppo per raccontarci l'incontro tra due ambienti, due culture, due mondi, due esseri umani tanto diversi tra loro, ciascuno dei quali riuscirà a cambiare l'esistenza dell'altro donandogli la parte migliore di sé.
Divertente senza scadere nel futile e toccante senza sfociare nel melodrammatico, QUASI AMICI non corre il rischio di annoiare, lasciandoci uscire dalla sala stupiti e deliziati, col cuore più leggero e il sorriso negli occhi.
Segnalo in particolare la bella sequenza iniziale, la serata all'opera e la rasatura.
Poi l'ottima colonna sonora e la bravura dei protagonisti: nel ruolo di Philippe, impeccabile François Cluzet il cui volto, per forza di cose, dice tutto e sorprendente Omar Sy (Driss), che col suo sorriso, la sua naturalezza e la sua presenza scenica tutto travolge.
Entrato nella classifica IMDb dei 100 film migliori di sempre, QUASI AMICI è ancora nelle sale delle grandi città da fine febbraio pur essendo in maggio. E allora che aspettate? Buona visione.